Giancelso Agazzi
’15-’18: Guerra Bianca e Sanità militare
Tutti gli storici concordano sul fatto che, nel corso della Guerra Bianca, i più spietati nemici dei soldati italiani non furono gli austro-ungarici ma il gelo, le tormente di neve, la mancanza di tutto. Lo spettro dell’assideramento e, nei casi migliori, il pericolo di ammalarsi per il freddo e la mancanza di igiene erano in perenne agguato per i nostri soldati, con ai piedi scarpe di cartone e il morale a terra. Il sistema medico-sanitario, che pure agiva al massimo delle proprie possibilità ed era considerato all’avanguardia, si trovava a dover gestire con pochissime risorse trasporto, cura e ricovero di uomini sfiancati da una malattia, feriti da colpi di artiglieria o da una valanga. Quella che si stava combattendo era una guerra assurda, che non aveva precedenti perché si svolgeva a un’ altitudine che complicava qualunque operazione, rendendo inadeguate le soluzioni che in piano potevano funzionare. Una teleferica a tre tratte collegava Malga Caldea al rifugio Garibaldi e, poi, raggiungeva i passi Garibaldi e Venerocolo: grazie a essa arrivavano ai ghiacciai fino a 400 quintali di merce al giorno, compresi i medicinali e altri presidi sanitari. Altre teleferiche collegavano la Val Sozzine alla Costa di Casamadre e Sozzine a Plaz dell’Orto in Val Narcanello, da dove due linee separate portavano ai passi del Castellaccio e di Lagoscuro. Dopo la conquista del Corno di Cavento, una teleferica collegò questa posizione e il monte Fumo. Pur essendo un mezzo indispensabile con cui trasportare in fretta morti e feriti non bastavano ad arginare l’orrore. Occorrevano, infatti, muli per riportare a valle chi non poteva farcela sulle proprie gambe, servivano disinfettanti, bende, garze, morfina, lacci emostatici, filo per sutura, siringhe ma questi presidi irrinunciabili scarseggiavano. Nel 1915 i soldati italiani andavano in guerra con una dotazione sanitaria risibile: garze, una fialetta di tintura di iodio, maschera, occhiali anti-gas. L'aspirina era usata esclusivamente presso le infermerie. Ogni soldato possedeva una targhetta con le generalità, i feriti avevano una seconda targhetta che riportava tipo di lesione e cure ricevute. Ogni Compagnia di Alpini possedeva 4 barelle, l’occorrente per medicare le ferite, etere e cloroformio, antiparassitari, morfina. Ma non era sufficiente. Si sa che, quando le garze finivano, si toglievano ai morti per riutilizzarle sui vivi. Non c’erano antibiotici e così le infezioni si sviluppavano senza che nulla potesse contrastarle, quasi sempre con esiti fatali. Il clima di montagna, caratterizzato da freddo intenso, scarsità di ossigeno, ventosità era dannoso per l’organismo dei soldati. Le radiazioni solari causavano frequenti congiuntiviti. Quest’ultimo problema si attenuò quando vennero dati in dotazione dei soldati, anche grazie all’intervento di privati, occhiali protettivi. La scarsa igiene e la promiscuità favorivano le infestazioni da pidocchi. L’altra insidia era rappresentata dai congelamenti. La Relazione del Corpo Sanitario Italiano riporta che nel 1915, a causa dei congelamenti in trincea, si ebbe fino al 60 per cento di combattenti allontanati dal fronte. Per aiutare i soldati a difendersi dalle temperature al di sotto dello zero Leone Sinigaglia, socio del CAI, creò un opuscolo da inviare al fronte, contenente una serie di istruzioni per limitare i pericoli del freddo. L’alimentazione era carente dal punto di vista nutrizionale: i cibi in scatola, introdotti di recente, col loro alto contenuto di conservanti erano poco salutari, mentre l’abuso di caffè determinava irrequietezza e un’innaturale eccitazione. All’inizio del conflitto si era pensato che tutto si sarebbe risolto in un breve arco di tempo: nessuno era preparato a una guerra che sarebbe durata a lungo.
L’infermeria Davide Carcano
Nel 1916 i medici militari erano 8 mila, nel 1918 18 mila. Vivevano coi propri soldati e coi propri ufficiali, nelle stesse condizioni di disagio, asprezza, fatiche e pericolo (…). Il loro compito era (…) di infondere forza, conforto, coraggio (…). E’ uno stralcio di quanto riferì in seguito Giuseppe Carcano, allora trentottenne capitano medico, amatissimo dagli alpini, a cui si deve la costruzione in Val D’Avio di una vera e propria struttura ospedaliera che lui battezzò “Infermeria Davide Carcano” in omaggio al padre garibaldino. Sorgeva dove, allo scoppio della guerra, esisteva il piccolissimo Rifugio Garibaldi, inaugurato dal CAI nell’agosto 1894 e successivamente requisito dal Ministero della Guerra per diventare il fulcro del quartier generale, da cui mosse l’azione bellica per la conquista dell’Adamello. L’infermeria Carcano divenne un nucleo sanitario contenente 50 brande o 150 lettini sovrapposti, dotato di sala operatoria, sala di medicazione, bagno, cucina, termosifone. Una teleferica arrivava all’ingresso dell’edificio. Una volta completata, l’Infermeria era a tutti gli effetti l’aspetto un ospedaletto attrezzato modernamente, che in breve divenne il centro dell'organizzazione sanitaria dell'intera regione. Animo instancabile della struttura era Giuseppe Carcano, medico visionario che dopo aver analizzato le carenze del Servizio Sanitario durante i combattimenti della primavera del 1916, riuscì a riordinare e potenziare il recupero dei feriti sul campo di battaglia. In particolare, progettò un sistema per adattare le comuni barelle rigide agli sci, affinché da un lato i feriti ricevessero meno scossoni, dall’altro fosse alleviata la fatica dei soccorritori. Tra le tante iniziative di Carcano, la costituzione di squadre per il recupero dei soldati che venivano feriti sul ghiacciaio. Ma l’opera di Carcano, di fatto straordinaria, era ancora poca cosa in relazione ai più di 1300 morti dell’Adamello. Si dice che fu medico non solo dei corpi ma anche delle anime. Morì qualche mese prima di compiere 85 anni, a Milano, forse neppure consapevole di essere entrato nella Storia. Altri punti di primo soccorso, furono allestiti a Venerocolo, Folgorida, Lares, Mandrone e ai passi di Lagoscuro, Brizio, Lobbia. I feriti, portati ai punti di primo soccorso, non di rado scansando granate e raffiche di mitragliatrici e scavalcando corpi senza vita, venivano successivamente caricati nelle teleferiche e infine accompagnati negli ospedali delle zone di Stadolina e di Edolo. Di notte erano i morti a essere trasportati: la loro meta era il cimitero di Temù.
Il criterio del triage
Fu durante questa guerra che nacque il criterio del “triage”. A seconda della gravità, si assegnava al paziente un colore: bianco se era una cosa lieve; verde se si trattava di un problema importante ma il soldato era trasportabile; rosso se non c’era più nulla da fare. I medici operavano in condizioni estreme, lavorando senza sosta per giorni interi. Le ferite erano sporche e a contaminarle contribuivano brandelli di vestiario. Erano in molti a morire per dissanguamento, perché la pratica delle trasfusioni era poco diffusa. Oltre 3000 uomini combatterono in ogni angolo dell’Adamello. Ogni giorno venivano impiegati per i trasporti 600 muli e 1800 portatori, per recapitare sui ghiacciai fino a 400 quintali di rifornimenti. Nel ghiacciaio vennero scavate lunghe gallerie per rifornire le posizioni più avanzate. Per il trasporto vennero utilizzati cani: tra il 1917 e il 1918 erano circa 250 i cani da slitta impiegati nell’Adamello. Il servizio iniziava all’alba con 2-3 viaggi al giorno da passo Garibaldi al Passo della Lobbia Alta, Folgorida e teleferica del Cavento. I cani erano impiegati inoltre, all’occorrenza, per il trasporto dei feriti, così come si utilizzavano gli asini. Sia gli uni sia gli altri trovavano ricovero alla fine dei loro faticosi tragitti in baracche allestite a passo Garibaldi.
I passi avanti della medicina
La Prima guerra mondiale fu l’occasione per i medici di sperimentare e migliorare nuove cure, nuove procedure, nuove tecniche di intervento nel campo della farmacologia, anestesia, radiologia e, soprattutto, della chirurgia. Inoltre, ebbero nuovo impulso la medicina di emergenza, che si doveva misurare anche con i travolgimenti da valanga, e la riabilitazione post traumi, tant’è che verosimilmente la “medicina di montagna” nacque proprio in questo periodo. Per quanto riguarda i disinfettanti, presidi irrinunciabili per medicare le ferite, il primo, a base di ipoclorito di socio e acido borico, fu messo a punto dal chimico americano Dakin insieme al chirurgo francese Carrel, a cui fu assegnato il Nobel nel 1912. Grazie a una più efficace disinfezione, la mortalità si abbassò del 10-15 per cento. Anche la tintura di iodio, inventata nel 1908 dal medico istriano Grossich, salvò molte vite, in quanto consentiva una adeguata sterilizzazione dei campi operatori. Oltre alla tintura di iodio si impiegava una soluzione alcolica di timolo al 5%. Nell’ambito della prevenzione, vennero organizzate campagne di vaccinazione contro varie malattie infettive, quali vaiolo, colera, febbre tifoide, che coinvolsero non solo i militari ma anche la popolazione civile. Secondo fonti autorevoli, grazie alla vaccinazione antitifica nell’esercito si verificò una significativa diminuzione della febbre tifoidea e di altre forme paratifiche.
Patologie legate alla guerra in quota
Mal di montagna (AMS)
Insolazione, colpi di calore, scottature, congiuntiviti.
Reumatismi, bronchiti, polmoniti, diarrea.
Febbre
Stato di angoscia
Stress
Ipertensione e alterazioni cardiache
Nefrite acuta “a frigore” (da freddo)
Un po' di cifre
600 chilometri del fronte alpino
650.000 morti circa nel corso della Grande Guerra
160.000 morti circa nel corso della guerra bianca
1300 morti sul fronte dell’Adamello
408 valanghe cadute nell’inverno 1915-16 nella zona dell’Adamello con oltre 600 vittime censite fino all’ 11 marzo 1916
105 valanghe segnalate in un solo giorno il 13 dicembre 1916
13 metri altezza della neve caduta sulla vedretta del Mandrone nel 1917
-30/-40° C temperature raggiunte d’inverno
3500 metri quota più alta di combattimento
3000 uomini vissero e combatterono sull’Adamello
4 viaggi all’ora per teleferica
60 feriti trasportati al giorno