Giancelso Agazzi
Ieri e oggi al tempo delle pandemie. La spagnola nella Guerra Bianca: analogie e differenze tra passato e presente
I tempi tristi e dolorosi della febbre spagnola sono lontani, ma la situazione attuale che ha colpito in modo assai pesante l’Italia e in particolar modo la provincia di Bergamo ci riporta a quei terribili momenti. Tra il 1918 e il 1920 un’epidemia spaventosa (“il più grande olocausto medico occorso nella storia”), pare proveniente dalla Cina, si manifestò con tre ondate: la prima benigna, la seconda terribile (tra estate e autunno) del 1918 e la terza nel 1919 meno virulenta, limitata ad alcune regioni. Gli strascichi della “spagnola” si protrassero anche nel 1920. Sul fronte del Trentino uccise più persone della guerra tra militari e civili. I morti in Italia furono circa 600.000.
Un mio zio, classe 1901, partito volontario negli Alpini, falsificando la firma del padre perché troppo giovane, venne assegnato in un primo tempo al passo di Lagoscuro in alta Valle Camonica. Venne,poi, mandato a Edolo perché per ragioni anagrafiche non poteva stare in prima linea. Raccontava dei numerosi soldati uccisi dal virus, portati via con la carriola negli ospedali militari. Un altro zio, tenente degli Alpini, nel settembre del 1918 nella zona del passo del Gavia, non fece in tempo a dare l’ultimo saluto alla giovane moglie colpita dal morbo. Un terzo dei soldati morti nella zona dell’Adamello pare sia deceduto per l’epidemia. A riguardo, la testimonianza di Don Primo Discacciati, cappellano militare presso l’ospedaletto da campo n°25 in Val Camonica, che racconta nel suo diario la tragedia delle truppe italiane colpite dalla pandemia.
Merita di essere considerato con attenzione un articolo pubblicato il 2 ottobre 1918 sul quotidiano La Provincia di Brescia, nel quale venivano elencate le direttive emesse dal Medico Provinciale e dalla Prefettura di Brescia nel tentativo di arginare la diffusione della pandemia influenzale (estratto dal volume “I cimiteri militari della Guerra Bianca sul fronte dell’Adamello”, edito dal Museo della Guerra Bianca di Temù, pubblicato di recente). Molte delle direttive sono sovrapponibili a quelle attuali messe a punto per proteggersi dal nuovo Coronavirus, il Sars-CoV-2. Venne richiesto l’utilizzo di maschere di tessuto nei luoghi pubblici per evitare il contagio e raccomandato l’uso del chinino di Stato come tonico. Nella pubblicazione “Guerra Alpina sull’Adamello 1917-18” di Vittorio Martinelli è riportata una lettera del Sottotenente Giovanni Rolandi in cui racconta che il 13 maggio 1918 un’epidemia influenzale (“spagnola primaverile”) colpì in modo inaspettato, per un solo giorno, i soldati del battaglione Monte Mandrone accampati per gran parte in tenda presso il rifugio Garibaldi, ritardando l’azione in programma. Nello stesso libro si racconta che nei mesi di novembre e dicembre 1918 la “spagnola autunnale” spopolò i battaglioni in Alto Adige, durante la sua seconda ondata. I soldati del battaglione Mandrone, immunizzati, non si ammalarono, ad eccezione di dieci Alpini che nel mese di maggio non erano stati al rifugio Garibaldi. Tra le truppe dell’impero Austro-Ungarico la mortalità fu quasi tripla rispetto a quella degli italiani perché le prime esposte su più fronti. Inoltre, la dieta alimentare degli Imperiali era a base di carne, mentre quella degli italiani era più ricca di verdura e frutta, quindi di vitamine (sostanze utili a sostenere il sistema immunitario). Oltre ai soldati, famiglie intere di civili vennero distrutte. Si utilizzava il legno dei mobili per fabbricare le bare che non bastavano mai. Scrittori e pittori descrissero poco con le loro opere la spagnola. E non manca neppure l’ipotesi della guerra batteriologica: la malattia viene definita “un regalo della Germania” che ce l’avrebbe mandata per farci perdere la guerra.
Secondo le stime approssimative dell’Istituto Centrale di Statistica la regione che ebbe in assoluto il numero maggiore di morti fu la Lombardia (36.653). In passato le epidemie si sono diffuse sia in pianura sia in montagna, coinvolgendo, quindi, le piccole comunità alpine. Infatti, contrariamente a quanto di solito si ritiene, la montagna non è separata dalla pianura e dalle città. Rispetto al passato, possiamo analizzare le differenze della trasmissione delle malattie nelle diverse zone del territorio. Un tempo erano i venditori ambulanti a rappresentare il tramite per il contagio di malattie infettive. Oggi la trasmissione del Sars-Cov-2, soprattutto nelle regioni alpine, è legata al turismo o al movimento dei pendolari, oppure di merci. Solo nelle zone non interessate dal turismo o con difficoltà nella rete viaria non si sono verificati contagi. Accadde lo stesso nella città di Gunnison, nelle montagne del Colorado a 2300 metri di quota, dove alla fine del 1918 non ci furono casi di spagnola grazie a un isolamento totale dal resto del mondo durato due mesi. Ripercorrendo quanto successo nel primo ventennio del secolo scorso, é impossibile non individuare un’analogia con l’attualità. Allora la censura non permetteva di diffondere certe notizie che avrebbero ulteriormente sconvolto le truppe e la popolazione già provate dagli anni di guerra. Ed è alla censura che si deve l’aggettivo “spagnola”: in quel momento storico la Spagna era neutrale, e i suoi giornali, privi di bavagli, potevano liberamente pubblicare notizie sulle morti via via più numerose, quindi descrivere le reali dimensioni dell’epidemia. Così passò l’idea che la “grande influenza” fosse un problema sostanzialmente iberico. In Italia non si poteva neppure pronunciare il termine “spagnola” e in alcune città, per ordinanza del prefetto, non si potevano neppure suonare le campane a morto. Per ordine del Primo Ministro Emanuele Orlando erano vietati i cortei funebri e i necrologi. Non esistevano mezzi di protezione molto efficaci, la gente non era granché consapevole, ma alcune situazioni erano simili a quelle attuali.
Nel 1918 le mascherine erano di semplice garza e i respiratori non esistevano, mentre la possibilità di tracciare i contatti delle persone contagiate era nulla. Anche allora gli scienziati discutevano e polemizzavano, sostenendo opinioni contrastanti e cercando di individuare le cause della terribile malattia infettiva. La gente si lamentava perché gli scienziati non avevano un’opinione unica, ognuno diceva la sua e soprattutto ricorrevano all’oscuro linguaggio della scienza per nascondere il fatto che non ci capivano niente, questo fatto dava luogo anche a scritti ironici sui giornali. Un grande disorientamento e imbarazzo travolsero la classe medica di tutto il mondo, all’indomani della stagione d’oro delle grandi scoperte microbiologiche di fine ottocento e di inizio secolo. Se le guerre si sono spesso rivelate una (tragica) occasione di progresso scientifico, si può dire che nel caso della spagnola quest’opportunità venne a mancare. Vittime preferite dell’epidemia uomini e donne nel pieno della giovinezza, ma anche bambini. I rimedi si limitavano alla cura dell’igiene personale e alla somministrazione di pastiglie e di sciroppi prima impiegati contro il raffreddore. A riguardo, si ipotizza che numerose morti furono causate dall’assunzione di esagerate quantità di aspirina: le autorità mediche dell’epoca raccomandavano di contrastare la spagnola con 30 grammi al giorno. Oggi si sa che dosi superiori a quattro grammi risultano tossiche per l’organismo e, quindi, possono peggiorare una condizione di malattia.
Cominciano a circolare voci su alcuni farmaci che avrebbero potuto funzionare anche a scopo preventivo, tra questi il chinino (anche allora il chinino) che comincia così a sparire dalle farmacie sottratto a chi ne avrebbe sicuramente bisogno, come i malati di malaria. Il chinino era un cardiotonico: si pensava che questa sua azione sul cuore rinforzasse l’intero organismo, rendendolo più resistente nel caso in cui si ammalasse di Spagnola. Contro l'influenza si pubblicizzarono tutti i tipi di cure più o meno miracolosi: saponi, collutori, pomate e persino aspirapolveri per liberare l'aria dai germi. Sul Messaggero in quei mesi si leggeva: “si fa presto a dire disinfettante…”, perché i disinfettanti spariscono dagli scaffali dei negozi. Si esauriscono le scorte e i prezzi salgono alle stelle. Si diceva inoltre che il consumo di tabacco e di alcol aiutava a prevenire e curare l'influenza. In Svizzera venne pubblicizzato un prodotto per disinfettare i telefoni. In Svizzera il problema fu più grave che in Italia. La spagnola provocava una polmonite bronco-emorragica, mentre il Sars-CoV-2 provoca una polmonite di tipo interstiziale. I sintomi iniziali della spagnola erano febbre alta, fastidi alla gola, tosse secca, stanchezza, mal di testa, dolori agli arti, congiuntivite, ma poi spesso peggioravano e il paziente cominciava a respirare con difficoltà, sanguinava dal naso, la sua pelle diventava viola, arrivava poi la fame d’aria e spesso il decesso. Nel caso del Covid-19, invece, spossatezza, febbre, anosmia, parosmia, ageusia, tosse, malessere diffuso, mialgie, diarrea (30% dei casi), dispnea, fino al distress respiratorio con danno d’organo. La maggior parte dei pazienti affetti da Covid-19 sono paucisintomatici. Per quanto riguarda la spagnola si sa poco a tal proposito. I morti dovevano essere sepolti il più rapidamente possibile, per evitare il contagio. Il distanziamento sociale veniva invocato dai medici, ma poco praticato. Nel corso dei primi sei mesi non venivano fatte le denunce (non vennero raccolti dati epidemiologici) e si parlò solo di una forma di influenza per non spaventare i soldati e la popolazione civile. I rimedi casalinghi comprendevano gargarismi con il bicarbonato di sodio e acido borico, impacchi di sale nelle narici e cipolle (per le loro virtù depuranti) a tutti i pasti. La pandemia si prolungò per circa un paio di anni seminando morte, poi, si risolse all’improvviso tra il gennaio e il febbraio del 1920. Il 60-70% per cento delle morti avvenne in un periodo incredibilmente breve di circa 15 settimane, tra la fine di settembre 1918 e l’inizio di gennaio 1919. Solo nel 1933 venne dimostrata l’origine virale della malattia, prima ritenuta di natura batterica. Allora come adesso i medici civili e militari si dovettero impegnare duramente per curare gli ammalati. Il servizio sanitario subì un crollo, anche perché migliaia di medici e di infermiere si trovavano al fronte. I medici militari curavano i soldati ammalati per poterli rimandare il prima possibile in prima linea. Ora i medici cercano di fare il loro meglio per guarire gli ammalati di Covid-19 e farli ritornare alla loro vita normale. Gli studenti dell’ultimo anno di medicina vennero inquadrati negli ospedali dopo un breve corso di formazione. Nell’estate del 1997 il microbiologo svedese Joahn Hultin isolò Il virus H1N1 (nome scientifico del virus influenzale di origine aviaria) nel tessuto polmonare del corpo di una donna Inuit sepolto nel permafrost a Brevig, un villaggio dell’Alaska popolato da alcune centinaia di abitanti.
"C’è un solo rimedio per riflettere sulla pandemia senza impantanarsi nei sermoni e nelle prediche di questi giorni: leggere e ragionare si, ma tuffandoci nella storia e nella letteratura." G. Mendicino