La “bellezza” della guerra
Fra i tanti paradossi della guerra c’è quello che fra lutti, dolori e macerie essa produce anche bellezza. Bellezza sotto forma d’arte: scritti, poesie, quadri, sculture, dall’Iliade di Omero a Guernica di Picasso gli esempi sono infiniti. La Prima guerra mondiale coinvolse moltissimi scrittori, poeti, pittori, scultori che raccontarono quella tragica e disumana esperienza attraverso il loro strumento d’espressione preferito: la penna, la tavolozza, lo scalpello. Da Carlo Emilio Gadda a Erich Maria Remarque, da Otto Dix a Mario Sironi l’elenco degli intellettuali coinvolti nel conflitto è enorme. Ma la guerra “creò” anche tanti artisti, persone che mai prima di quella esperienza si erano cimentati in una qualche forma espressiva ma che sentirono urgente e irrinunciabile l’esigenza di raccontare e tramandare quel capitolo tragico della loro esistenza. Angelo Malinverni è addirittura un esempio “doppio”, pittore e scrittore: medico, volontario di guerra, già apprezzato artista e caricaturista prima della guerra, grazie al conflitto si rivelerà anche un ottimo, per non dire grande, letterato. Autore di disegni satirici per il giornale Sior Tonin Buonagrazia e di paesaggi a olio, in guerra si porta la “cassetta dei colori”, che utilizzerà soprattutto negli ultimi mesi del conflitto, in Val di Ledro: “Avevo meco i colori: aperta la cassetta, mi disponevo accanto all’uscio per dipingere, quando un sùbito schianto pauroso mi fece sobbalzare ed ebbi appena il tempo di precipitarmi fuori”. Come lui molti furono i pittori italiani coinvolti in quella tragedia che testimoniarono con i pennelli e la matita la loro esperienza: Umberto Boccioni (morto nel 1916 per un incidente), Mario Sironi, Anselmo Bucci, Antonio Sant’Elia (morto al fronte), futuristi che diedero vita ad un’esperienza “comunitaria” arruolandosi tutti insieme nel Battaglione Lombardo dei Volontari Ciclisti e Autombilisti e combattendo fianco a fianco sul fronte del Monte Baldo. E poi Giulio Aristide Sartorio, Italico Brass, Giorgio Oprandi, Tommaso Cascella, per citarne solo alcuni. Le loro opere vennero a volte utilizzate per la propaganda di enti e comitati di assistenza ma non ci fu mai un loro “arruolamento ufficiale”. Alcuni, per le loro capacità, vennero impiegati dai Comandi come disegnatori di panoramiche di linee e postazioni nemiche. Anche da parte austriaca l’impegno degli artisti fu grande ma in questo caso venne addirittura “inquadrato organicamente”. L’esercito austro-ungarico aveva infatti creato un Ufficio stampa di guerra all’interno del quale venivano arruolati e impiegati i Kriegsmaler, i pittori di guerra, artisti che avevano il compito di ritrarre la vita dei soldati al fronte e le cui opere venivano poi utilizzate per manifesti, mostre e cartoline di propaganda. Tra loro ricordiamo Hans Bertle e Albin Egger-Lienz. Uno dei meriti di questo bistrattato Centenario della Grande Guerra e, naturalmente, dell’editore AdArte che ha deciso di riproporlo, sarà quello di aver riportato all’attenzione del pubblico italiano il Malinverni scrittore ed un’opera che non era mai più stata riproposta dopo l’edizione Montes del 1942. Malinverni è un artista a tutto tondo, eclettico, che dopo aver dimostrato di saper usare la matita e il pennello, rivela anche una straordinaria abilità nella scrittura. Non sono un critico letterario né uno storico della letteratura, ma credo che O luna, o luna, tu me lo dicevi… non sfiguri affatto a fronte di capolavori ben più celebrati della memorialistica della Grande Guerra, soprattutto alpina, come Le scarpe al sole, di Paolo Monelli, Con me e con gli alpini, di Pietro Jahier, o Trincee di Carlo Salsa e Giorni di guerra di Giovanni Comisso. Tutti testi periodicamente riediti e riproposti al pubblico. Malinverni no, è stato dimenticato: solo in un’occasione, nel 2000, rispolverato e ampiamente citato da chi scrive e da Luciano Viazzi in un volume dedicato alla guerra su Monte Nero e dintorni. Neppure nelle opere critiche sulla letteratura del Primo conflitto mondiale, come Il mito della Grande Guerra di Mario Isnenghi, per citare il titolo più famoso, Malinverni viene citato. Omesso come un altro, a mio parere, straordinario autore di memorialistica militare della Grande Guerra, Paolo Caccia Dominioni. Anche lui, per coincidenza, scrittore e illustratore. Eppure Angelo Malinverni ha tutte le caratteristiche del grande autore. Sottotenente medico aggregato al battaglione Ivrea del 4° reggimento Alpini, di cui diventerà anche aiutante maggiore, caso più unico che raro per un ufficiale della Sanità, Malinverni tra il 1915 e il 1917 combatte sul fronte dell’Alto Isonzo, fra Monte Nero, Vrata, Vrsic, Sleme, Mrzli, Vodil. Un fronte poco frequentato dalla memorialistica di guerra (l’autore più noto, per altri motivi, che ne parlò fu Benito Mussolini, nel suo Diario di guerra) ma che grazie a Malinverni scopriamo nei suoi aspetti contraddittori di guerra di trincea e di assalti, sul Mrzli e sullo Sleme, e di guerra d’alta montagna, di pattuglie e di valanghe, sul Vrata e sul Vrsic. Il libro è una sorta di lettera-diario indirizzata all’amico Baldo, l’ingegner Baldassarre Mazzucchelli, un carissimo amico vercellese che, arruolatosi volontario nel 1917, morirà per ferita subita in combattimento il 24 novembre 1918. La narrazione di Malinverni è caratterizzata da un ritmo incalzante, senza soste, da un montaggio delle scene frenetico, quasi da pellicola cinematografica, che avvince anche quando non descrive il combattimento ma il riposo o la vita di retrovia. Anche il linguaggo che utilizza è assolutamente originale: mai banale, colto ma con molte contaminazioni dialettali che vivacizzano ancora di più una narrazione che svela anche l’educazione classica e scientifica. L’aurora ha “le dita rosate” come in Omero, e le nuvole diventano “nubecole”, un termine utilizzato in chimica e in medicina. La chioma di un vecchio faggio è “scarruffata dalle tempeste” e gli alpini attaccano “sotto le furie d’una notturna bufagna”. Malinverni ama giocare con le parole: dopo una notte passata all’addiaccio l’alba lo sorprende “completamente immerluzzito” e gli occhi sono “impeciati di sonno”. Le granate a shrapnell diventano i “srapanelli”. Il nemico sono i “bedu”, abbreviazione di beduini. Cosa c’entrano i beduini con gli austriaci? Li chiamavano così i suoi alpini, molti dei quali reduci dalla guerra di Libia, combattuta contro i turchi e i libici, i “beduini”: quindi, per estensione, tutti i nemici erano diventati “bedu”. L’ironia è una nota costante delle memorie, anche nelle circostanze più difficili, ma trabocca lettralmente nella descrizione del maggiore G.P. cav. Carlo, nuovo comandante di battaglione, detto “Carlin la siola”, Carletto la cipolla, in piemontese: “non un’aquila ma nemmeno un’oca e amante del fiasco. Di vino, s’intende…”. Un altro grande protagonista del libro, e non poteva essere altrimenti, è il paesaggio, una costante del suo racconto: anche qui Malinverni svela la sua doppia veste di scrittore e pittore, vede, e scrive, con lo sguardo dell’artista, del paesaggista, con pennellate di parole di grande efficacia descrittiva: “E buon per noi che ci aiutò la luna, affacciatasi per pochi istanti a uno squarcio delle nubi, a illuminare la tragica grandiosità d’un fantastico scenario. A destra, di là da una voragine dalle profondità della quale emergono lentamente grigi batuffoli di nebbia, una paurosa muraglia strapiombante di roccia, rigata di scuri canaloni e di candide strisce di nevi, tagliata in alto da una densa cortina di nubi: Monte Nero. A sinistra, un mare di nebbia inargentata; nel mezzo, sulla stretta cresta bruna, un lungo silenzioso seprente ondeggiante, irto di penne nere e di canne di fucili; e la testa si perde lontana nel buio”. Ma quando la tragedia incombe e la morte diventa protagonista, senza cadere nella trappola della retorica o del pietismo l’autore ci immerge col suo ritmo e la sua sintesi nel dolore e nella paura dei suoi soldati. Come nel capitolo del libro intitolato “Javorcek” dove Malinverni racconta l’episodio in cui lui, il suo maggiore ed altri colleghi vengono inviati a soccorrere alcuni fanti siciliani travolti dalla valanga in una posizione in quota pericolosa e vertiginosa. E’ una delle più toccanti e realistiche descrizioni della “morte bianca” che siano mai state scritte, un capolavoro linguistico ma anche “tecnico”, il racconto di un soccorso, purtroppo inutile, in condizioni al limite dell’umano. “La Morte Bianca. Sai che cos’è? (…) Implacabile e cruda: persa e confusa nell’immensità delle nevi, si libra sulle creste, si appiatta e striscia giù pei canaloni, rotola, slitta, saltella, fa capriole, si aggomitola pigra sui declivi molli, strapiomba con fulminei tonfi dai dirupi a picco. Ti spia dall’alto, ti guata, ti segue. E tu la senti da lontano, ne avverti con terrore il frusciar della veste, i lievi tonfi smorzati, l’indistinto sospiro. Ma non le sfuggirai”. Angelo Malinverni, per nostra fortuna, le sfuggì e ci ha consegnato una delle testimonianze più sincere, originali e commoventi della letteratura di guerra alpina.
Marco Balbi
Angelo Malinverni
O luna, o luna, tu me lo dicevi...
Un appassionato diario di guerra in prima linea con gli alpini 1915 - 1918
AdArte
Pp.376
in brossura cucita
copertina con alette
135x210 mm.
2018
15.00 €